di Marco Baccanti
Per le scienze della vita, l’attività di trasferimento tecnologico è una condizione necessaria per far sì che i risultati della ricerca arrivino a recare davvero beneficio alla società.
Come far sì che ciò che viene scoperto dalla ricerca biomedicale possa arrivare a recare beneficio alla società, per esempio facendo guarire un paziente o mantenendolo sano? La risposta a questa domanda è l’argo- mento di questo contributo. I lettori attenti avranno già notato che quando si tratta di questo tema, soprattutto nell’ambito delle scienze della vita, si tende sempre a parlare di trasferimento tecnologico invece che di valorizzazione della ricerca: ci si concentra sul mezzo più che sul fine.
Ciò è motivato dal fatto che dalla scoperta al paziente il cammino è talmente complesso che il trasferimento è ineluttabile: si tratta di una sfida a staffetta che deve necessariamente coinvolgere più attori che, ogni volta, si trasferiscono conoscenza e proprietà intellettuale.
La logica dietro questa complessità
Immaginate che in un laboratorio di ricerca si scopra un meccanismo biologico che faccia presagire che una certa proteina possa avere un effetto terapeutico per una certa patologia. A questo punto, i ricercatori sono tipicamente animati dal desiderio di pubblicare al più presto quanto trovato, di informare subito la loro comunità scientifica suscitandone l’ammirazione e una scia di studi di approfondimento, ma si trovano di fronte a un dilemma: la divulgazione impedirebbe che un giorno un paziente possa trarre beneficio dal frutto della loro scoperta, perché renderebbe impossibile la brevettazione.
Meglio un possibile beneficio ad un paziente tra molto tempo, o l’acclamazione della propria comunità oggi?
La brevettazione
Di fatto, se si vuole sperare che il frutto dei propri sforzi di ricerca possa un giorno generare un impatto, bisogna resistere alla tentazione di pubblicare immediatamente e rimandare qualsiasi divulgazione fino a quando dal processo di brevettazione si ottiene una data di priorità.
Per capire perché il brevetto è così importante bisogna considerare il processo a ritroso, partendo da quando una azienda viene finalmente autorizzata a distribuire quella proteina per guarire chi è affetto da quella patologia. La proteina diventa disponibile sul mercato solo se si riesce a dimostrare alle agenzie regolatorie che è assolutamente sicura ed è più efficace dei farmaci eventualmente già disponibili. Per riuscirci, bisogna produrre un dossier con risultati di test clinici effettuati su migliaia di pazienti, che costano molte centinaia di milioni (tipicamente un miliardo) e durano molti anni (tipicamente dieci anni).
Tra l’altro, esiste sempre un elevato rischio che, strada facendo, emergano criticità impreviste tali da obbligare ad abbandonare il progetto, bruciando così tutti gli investimenti già effettuati.
C’è solo un motivo per cui un’azienda può considerare di investire risorse così ingenti e con rischi così elevati: è la prospettiva che in caso di successo essa potrà godere di un monopolio di mercato sufficientemente lungo da consentirle di estrarre guadagni in grado di ripagare sia l’investimento specifico che tutti gli altri che non hanno avuto successo.
L’unico modo per godere di tale monopolio temporaneo è proprio quel brevetto la cui procedura di deposito era stata avviata tanti anni prima, al momento della scoperta, da quei ricercatori che avevano accettato di rimandare temporaneamente l’acclamazione dei propri pari.
L’ineluttabilità del trasferimento tecnologico
Se ora è spiegata la sequenza che va dall’invenzione alla prima dose commercializzata ad un paziente, bisogna ancora chiarire l’ineluttabilità del trasferimento tecnologico.
Fino a qualche decennio fa, la ricerca di base avveniva nei centri di ricerca accademici, che con finanziamenti pubblici studiava i principi di base, mentre lo sviluppo di nuovi farmaci veniva condotto dai grandi gruppi farmaceutici nel segreto dei loro laboratori. Era un mondo relativamente semplice e prevedibile, con processi lineari.
Ma il progredire delle conoscenze ha portato ad una crescente complessità, con una sequenza di rivoluzioni sia nelle tecnologie che nei modelli di sviluppo: dalle molecole chimiche di piccole dimensioni alle relativamente enormi proteine, dalla sintesi alla fermentazione, all’avvento di genomica, anticorpi monoclonali, medicina rigenerativa, terapia genica, mRNA, e via dicendo. Analogamente, dai ‘big pharma’ che sviluppavano e finanziavano tutto in casa, alla ricerca sponsorizzata, agli spin-off, alle start-up, alle biotech, al capitale di rischio specializzato, alle M&A (fusioni e acquisizioni tra aziende).
L’industria ha reagito a questa nuova complessità abbandonando l’idea di fare ricerca in casa, aprendosi invece a strategie di ‘open innovation’: la ricerca accademica genera conoscenza che viene trasferita direttamente al big pharma che la spinge verso il mercato. Oppure indirettamente, attraverso fasi di incubazione intermedie più o meno lunghe (appunto spin-off, start-up e le biotech).
Pertanto, nel corso del lungo e rischioso cammino verso il traguardo dell’approvazione degli enti regolatori, il trovato deve essere necessariamente trasferito: nasce dalle mani degli inventori, sapienti ma poco avveduti dei meccanismi finanziari, per passare a quelle di terzi in grado di gestire processi di sviluppo con scala di investimento via via crescente.
L’oggetto del trasferimento è la licenza del brevetto, che potrà essere concessa ad una azienda già consolidata (un gruppo farmaceutico o una biotech), o ad una nuova ragione sociale costituita appositamente con il coinvolgimento di capitale di rischio, sempre a fronte di contratti che prevedono remunerazioni sia immediate che condizionate al successo futuro.
È inoltre molto frequente che la prima entità che decide di investire sulla proprietà intellettuale dagli inventori non sia affatto in grado di arrivare alla destinazione finale, ma potrà effettuare solo i passaggi iniziali, e si renderà pertanto necessario un successivo trasferimento (exit).
Chi assume il rischio dell’investimento in genere punta su più progetti contemporaneamente e spera così di ricevere una elevata premialità dai casi positivi in grado di compensare le significative perdite da quei progetti che invece dovranno essere sospesi, in misura ben più numerosa di quelli vincenti.
In conclusione, per le scienze della vita, l’attività di trasferimento tecnologico è una condizione necessaria per far sì che i risultati della ricerca arrivino a recare davvero beneficio alla società.